Club Alpino Italiano
sezione di Sassari

Monte Cinto in solitaria.

21 Marzo 2023 | Maria Giovanna Cugia

Diario di Tore Wild

Corsica 17-03-2023

 È venerdì 17 marzo, non una buona giornata per i più superstiziosi. La sveglia suona all’alba. Alla mia destra le prime luci della giornata illuminano il massiccio montuoso più alto del sistema sardo-corso: Sua Maestà Monte Cinto in tutta la sua bellezza.

Mi trovo a Lozzi, piccolo borgo ai piedi del monte che consta di circa 118 abitanti (al 2017), tra i più fortunati al mondo. Non tanto per la bellezza del Monte Cinto in sé – che lo sovrasta e protegge dai venti nordici – quanto dall’assoluta bellezza dell’intera Valle del Golo che comprende un insieme di paesini che distano l’un l’altro al massimo 4 chilometri, e fanno da contorno al lago di Calacuccia, con l’omonimo paese; Albertacce, Casamaccioli e, lo stesso Lozzi, il più alto, quello a mio parere con la vista migliore su questa immensa vallata che costeggia la Grand Barrière de Corse.

Sono le 7:15 e mi trovo al parcheggio del Camping Monte Cintu, a quota 1075 metri. La colazione è abbondante ma veloce, per evitare di sforare sulla tabella di marcia. 

Una volta preparato lo zaino con cibo, acqua, ramponi, piccozze e caschetto, è ora di partire alla volta del rifugio de l’Ercu che dista da me circa 6 chilometri per 690 metri di dislivello positivo. Per arrivarci si percorre una strada sterrata in salita con parecchie curve che vanno bypassate seguendo il percorso indicato dalla segnaletica, così da anticipare i tempi.

Monte Cinto è ad ogni passo più vicino e più alto. Da questo punto sembra che ci sia meno neve di quanta se ne osservi da Lozzi, ma è solo una mera impressione.

Arrivato al sentiero, quello che in dialetto avrei chiamato “semita”, inizio a scorgere in lontananza il rifugio de l’Ercu che però, dista da me ancora 40 minuti di marcia. Una marcia piuttosto pianeggiante ma completamente ricoperta da almeno mezzo metro di neve ghiacciata, infatti il sentiero è ormai percorribile solo con l’ausilio di ramponi, racchette da neve e scii da skialp. 

Mi fermo a ridosso di un masso granitico per indossare i ramponi. Davanti a me perde quota la valle dell’omonimo rifugio che parte dal lago alpino del Cinto e arriva in piena Valle del Golo. 

Il fragore del fiume in piena è udibile a parecchi chilometri di distanza e crea un’atmosfera molto particolare, soprattutto quando si è soli e circondati da creste di quasi 3000 metri. I suoni sono diversi, così come l’aria: fredda, leggera e pura. È quasi un piacere respirare a pieni polmoni questo misto di profumi balsamici emanati dai tanti arbusti di ginepro. È un profumo che ormai ho dentro dall’ultima traversata, fatta in queste zone lo scorso agosto. 

Bevo e proseguo perdendo quota per affiancare il rifugio de l’Ercu e risalire l’omonimo fiume fino alla parete di neve ghiacciata che mi porterà fin sulla vetta. 

Dietro di me, 4 scialpinisti mi stanno al passo percorrendo il mio stesso tracciato e, poco dopo, mi superano dandomi modo di valutare se seguirli, lungo un ripido crinale quasi verticale che porta direttamente alla cima. 

È un pendio che mai mi sarei immaginato di scalare, poiché la mia intenzione iniziale era quella di passare per il lago del Cinto e prendere quota in cresta fino alla cima. In realtà però, da stamattina, pensavo di fare qualcosa di più allettante e “ripido” della solita via che passa dal lago alpino. Anche perché lungo il percorso che passa per il Lago del Cinto ci sono già stato lo scorso agosto. Comunque, ho temporeggiato abbastanza e decido di seguire il ripido crinale consigliatomi indirettamente dai quattro ragazzi che sono ormai lontani da me. Tanto lontani da sembrare quasi dei puntini in movimento lento ma costante. 

È il momento di iniziare la scalata! Messo il caschetto e legate a me le piccozze, si parte! Il pendio inizia con una parete appoggiata per circa 200 metri, dopo di ché si inerpica verticale lungo uno stretto ma lunghissimo canalone che sembra arrivi direttamente al cielo.

  La neve e l’ambiente in sé, non mi aiuta a capire le distanze, infatti, ciò che sembra vicino e raggiungibile con poco, è in realtà lontanissimo e quasi irraggiungibile. 

Ormai sono solo. I quattro ragazzi non si vedono più e, in poco tempo, mi trovo quasi all’imboccatura del lungo e ripido canale quando mi accorgo di star passando affianco ad un crepaccio. Il ghiaccio in quel punto è liscio e bluastro, ciò mi porta a pensare proprio a lui, e infatti, eccolo là, sopra di me. A circa 5 metri si apre una frattura che somiglia ad uno squarcio irregolare, lungo una decina di metri e largo circa un metro e mezzo. Una volta affiancato, noto che ha una profondità che si aggira sui tre metri. Nel fondo non si vede roccia e man mano che lo sguardo scende verso la base, il colore cambia. Il ghiaccio non è bianco o azzurro ma tendente al blu. Un blu che sembra il riflesso del cielo. Ciò che mi colpisce però, è la forma “tafonata” che ha questo crepaccio e non un taglio netto. Sembra come se si fosse formato da bolle poiché queste sono le forme interne che lo rendono così particolare. Lo lascio alla mia sinistra e risalgo il pendio dove il ghiaccio sembra essere più stabile. Pian piano il canale si restringe e la verticalità aumenta. Mi muovo in modo delicato ma deciso trovando la giusta stabilità ad ogni passo, prima di ramponi e poi di piccozze, soprattutto guardando sempre davanti a me. Ad un palmo dal naso. Oltre non si può… un grande scrittore e alpinista disse che la cima non va guardata, poiché essendo la montagna timida, si allontana da te dando l’impressione di non raggiungerla mai. 

A metà del lungo canalone mi fermo per bere. Sono quasi verticale a circa 500 metri dalla valle sottostante, assicurato alle piccozze. Bevo e osservo ciò che mi circonda, da su a giù. D’un tratto però, come se fossero vicine, sento delle voci. Penso in quell’istante di essere prossimo alla vetta ma è solo un’impressione e penso subito possa essere la stanchezza e il sole cocente che grazie al ghiaccio riflette tutto il calore su di me. Ci sono -5 gradi ma sono sbracciato e sudato. Lo sforzo è intenso e il calore parecchio. 

La strada percorsa nelle ultime ore fa impressione e mai mi sarei aspettato emozioni adrenaliniche tanto forti e a tratti snervanti. Soprattutto, mai mi sarei aspettato di salire il Cinto da questo crinale tanto ripido. Sopra di me invece, verso la fine del canalone, mentre osservo quella che risulta essere la fine del lungo canale, intravedo dei puntini che sfrecciano come saette a zig-zag, saltando ad ogni angolo, prima a destra e poi a sinistra, fino ad arrivare a me. Ecco di chi erano le voci, penso… il vento le ha incanalate fin qui. Sono prima uno, due, tre e poi quattro. Sono i ragazzi che ho seguito lungo il pendio e, uno per volta si fermano a complimentarsi con me per la scalata affermando che, dopo avermi visto alla base del crinale, mai si sarebbero aspettati di vedermi alle prese con la scalata dello stesso. Dopo due parole riguardo la tecnicità alpinistica dell’ascesa, mi annunciano che sono ormai vicino, si fa per dire, alla cima… mancano ancora “soli” 400 metri, stimati da loro in poco più di un’ora di tempo. 

La stanchezza inizia a farsi sentire e non vedo l’ora di poggiare ramponi e piccozze sulla vetta.

Il canale è ancora lungo e, tra il sole che mi picchia in testa e la stanchezza, il passo diventa sempre più lento e poco costante. Non demordo e poco dopo arrivo alla base dell’anticima, ciò che dall’inizio ho tra me e il cielo. La cima è ancora a mezzora da me, lungo un traverso destro.

Arrivato alla sella che separa l’anticima dalla cima, si apre ai miei occhi uno spettacolo da paura (nel vero senso della parola): Il lungo canale è arrivato al termine e ora, la quasi verticalità che poco fa era chiusa a destra e a manca, è completamente aperta, senza rocce ai lati ma con un ripido ed impressionante pendio unico di circa 800 metri che arriva fino alla valle del rifugio. La cima è ormai visibile e mi siedo per scattare un paio di foto e sgranchire le gambe, bevo.

La verticalità si attenua di parecchio per arrivare alla cima ma, è pur sempre impressionante l’altezza rispetto alla pendenza su cui mi trovo. Basterebbe una semplice scivolata e via giù dal pendio a quasi un chilometro da terra. 

 Arrivo in vetta alle 14.15 e, dopo attimi intensi di contemplazione, siedo davanti alle croci. Prendo il libro di vetta dalla cassetta in lamiera – che prova a proteggerlo dalle intemperie – per scriverci sopra qualcosa. Di fogli liberi neanche l’ombra. Menomale ho sempre con me un taccuino dal quale ne strappo un paio da lasciare là per chi, dopo di me, avrà voglia di scriverci sopra.

  La stanchezza è tanta ma la gratitudine è di gran lunga superiore. Sono solo, lontano da tutto e da tutti, a 2706 metri sul livello del mare. Io e Sua Maestà Monte Cinto in tutto il suo splendore. 

Questo è il punto più alto e centrale del Mediterraneo. Ho atteso tanto prima di trovare un cielo terso e limpido come questo e alla fine ci sono riuscito. 

È il 360° più bello e freddo di sempre. Sta soffiando una forte brezza gelida da nord-ovest che ghiaccia persino i pensieri. La temperatura è ora di circa -12°C e con il vento se ne sentono almeno 5 in meno.

Sulla vetta del Cinto sono presenti due croci, una più grande e rustica, contornata di ogni bene, dalle bandierine tibetane, portachiavi e pupazzetti vari a braccialetti e collanine; la croce piccola invece è meno rustica e più ben fatta, con al centro la frase: “A CROCE A NOSTRA SPERANZA”.

Alla destra delle croci, si erge un blocco in cemento armato sul quale vi sono fissati parecchi gingilli metallici, compresa la cassetta del libro di vetta.

La panoramica è spettacolare e assolutamente unica: a sud, il massiccio del Monte Rotondo completamente innevato con, all’orizzonte, ben visibili, le vette più alte della Sardegna; Ad est l’isola di Montecristo e l’isola d’Elba; a nord, la costa di Bastia con il grande “dito corso” che punta verso la Liguria, anch’essa ben visibile con le vette imbiancate delle Alpi liguri; ad ovest, Paglia Orba detta anche il Cervino rosso, la costa di Calvì ed un immenso mare all’orizzonte.

Sono le 14:35 quando inizio la discesa della vetta nello stesso modo in cui l’ho risalita e con lo stesso entusiasmo di qualche ora prima. Alle 19:40 arrivo alla base di questa lunga lingua di neve ghiacciata e, da lì in poi, sarà un lungo avvicinamento verso i parcheggi del Camping Monte Cintu, con la sola illuminazione della torcia frontale, durante una notte senza nuvole né luna, col solo bagliore delle costellazioni e sospinto della leggera brezza gelida che mi accompagna, lungo gli ultimi passi di quest’altra avventura in solitaria, ormai da quando ero in cima.

Arrivo all’auto alle 21:50 e, dopo aver preparato la cena, mi rilasso per godermi a pieno ciò che rimane di questa lunga e devastante giornata ricca di emozioni nuove, forti e uniche. 

Alle 23:30 sono pronto per passare la notte. L’ultima di due, al cospetto di Sua Maestà Monte Cinto.

Tore Wild.

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